[Repost] Lost in translations: la questione della traduzione a partire dal principio. Ovvero: il titolo (by Mariachiara Eredia)

Lost in translations: la questione della traduzione a partire dal principio. Ovvero: il titolo

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In un mondo in cui spirito di servizio e galanteria sono ormai un retaggio perduto di austeniana memoria, sopravvive nonostante tutto un cavalier servente, Highlander dei giorni nostri armato non di spada ma di dizionario: costui (o costei, non perdiamoci in sottigliezze di genere) è il traduttore.

Dal latino tradūcere (letteralmente: “condurre al di là”), il traduttore staziona a cavallo fra due lingue, due mondi, due culture diverse, teso nello sforzo continuo di mettere in comunicazione una parte con l’altra, travasando forme e contenuti con la mano più ferma che gli riesca di trovare: il pericolo di far traboccare stile e parole è infatti costante, e il punto non è tanto evitare che trabocchino, quanto piuttosto non farli traboccare eccessivamente.

Ma anche se qualcosa va perduto, inevitabilmente, in ogni traduzione, lo specialista nella rimozione delle barriere linguistiche cerca sempre di servire il testo nel modo più fedele possibile, rendendolo al meglio nella lingua d’arrivo (“target language”, è così che la chiamano gli addetti ai lavori; anglicizzarsi è cool e fa tendenza, di questi tempi); o almeno, servire il testo dovrebbe essere l’obiettivo di un traduttore come si deve, uno tutto d’un pezzo. Ma non è facile, e questa rubrica si propone di rendere più o meno l’idea di quanto non lo sia; la lingua-campione scelta per questa carrellata di perdite e grattacapi traduttivi è l’inglese, di competenza di chi scrive e, probabilmente, al giorno d’oggi, un po’ di tutti quanti.

Tra una tappa e l’altra di questo viaggio interlinguistico ci si concentrerà prevalentemente sui risvolti letterari della traduzione, senza però escludere altri ambiti, dal cinematografico al televisivo, come succede in questa prima puntata, dedicata all’inizio degli inizi: il titolo.

Chi ben titola…

Ovviamente, qualunque cosa, sia essa un libro o un film, comincia dal principio, che nel nostro caso è il titolo; citazione extra-testuale, gioco di parole accattivante, anticipazione sibillina, il titolo è il biglietto da visita di un qualsiasi prodotto letterario o cinematografico, e tradurlo, a volte, diventa una missione impossibile davanti alla quale pure Tom Cruise batterebbe in ritirata.

Purtroppo, non tutti i titoli si prestano a traduzioni immediate come The Da Vinci Code (Il codice Da Vinci), Pride and Prejudice (Orgoglio e pregiudizio) e The Lord of the Rings (Il signore degli anelli); e allora, il traduttore è solo con il suo dramma, oppure a volte, come vedremo, gli viene richiesto di rispondere a direttive editoriali ben precise.il giovane holden

Un esempio emblematico della difficoltà di tradurre i titoli è quello di The Catcher in the Rye, che dizionario alla mano diventerebbe “Il ricevitore nella segale”, titolo che nessun lettore italiano riconoscerebbe là per là, e nemmeno riflettendoci su. Il titolo corrispondente nella nostra lingua, infatti, è Il giovane Holden, il romanzo di Salinger sull’alienazione adolescenziale che, per lo stile e il linguaggio peculiari che ne hanno fatto la fortuna, promette crisi traduttive che vanno ben oltre il problematico titolo. E così, mentre l’originale inglese è un riferimento al verso di una poesia storpiata dal protagonista, e fa leva su due termini più che popolari nel linguaggio corrente americano (il “catcher”, infatti, è un ruolo del baseball, e il “rye” rimanda al “rye whiskey”), la traduzione italiana è l’insipidità fatta titolo; d’altronde, “Il ricevitore nella segale” avrebbe senz’altro fatto sgranare gli occhi ai possibili lettori.

Peggio ancora quando, invece, i titoli originali possiedono un doppio significatoderivano da un modo di dire o sono costruiti con un gioco di parole: è questo il caso di The Man with Two Left Feet, racconto del grande umorista inglese P.G. Wodehouse, tradotto letteralmente con L’uomo con due piedi sinistri, che non significa assolutamente niente ma che, complice il mondo surreale e i personaggi sgangherati di Wodehouse, riesce a passare inosservato. Per la cronaca, in inglese “avere due piedi sinistri significa “ballare malissimo”.

L’ultimo esempio letterario presentato qui è il titolo di un (meraviglioso) thriller di Agatha Christie, Crooked House, che letteralmente dovrebbe essere reso con “Casa storta”; la “stortura” a cui allude questo titolo inquietante riguarda da vicino l’insospettabile assassino di turno. L’edizione italiana recita È un problema (sottinteso: tradurre questo titolo).agatha cristie

Ma il cinema regala spunti altrettanto interessanti: un esempio su tutti, il caso dei vari “Se fai qualcosa, io faccio qualcos’altro”, che annovera, fra gli altri, Se mi lasci ti cancelloSe scappi ti sposoSe cucini ti sposo, e la variante a parti invertite Se ti investo mi sposi?, titoli che suonano più o meno minacciosi alle orecchie di celibi e nubili impenitenti, perché non serve scappare così come basta preparare un’omelette, l’altare è lì a un passo. Sarebbe forse superfluo chiarire che non uno solo di questi titoli, in originale, minacciava lo spettatore (i titoli in inglese sono, rispettivamente, Endless Sunshine of the Spotless Mind,Runaway BrideTime Share e Elvis Has Left the Building). La scelta traduttiva “seriale” adottata dall’Italia mirava certamente a creare un filone di prodotti che, richiamandosi l’un l’altro, avrebbero suggerito allo spettatore una familiare continuità; peccato che l’improprioSe mi lasci ti cancello sia un film di diversi significato e levatura, e che sia finito nel calderone dei minacciosi “Se” per…non si sa bene quale motivo.

L’elenco di film con titoli italiani che, confrontati con l’originale inglese, strappano un sospiro perplesso allo spettatore è piuttosto lungo, e se a volte lo stravolgimento è inevitabile, altre volte viene il sospetto che si sarebbe potuto evitare: esemplare, in quest’ultimo caso, il primo capitolo della fortunatissima saga dei “Pirati dei Caraibi”, intitolato The Curse of the Black Pearl (“La maledizione della Perla Nera”), e tradotto con La maledizione della prima luna, sostituendo alla nave del pirata Jack Sparrow la “prima luna” che innesca la maledizione; perché se ne sia sentita la necessità, non si capisce bene.pirati dei caraibi

Oggigiorno, in ogni caso, il problema titolo è spesso arginato, soprattutto per quanto riguarda generi popolari fra gli adolescenti, dal fantasy al paranormal romance: se lapidario e attraente, il titolo originale non viene tradotto affatto, o al massimo è accompagnato da un sottotitolo chiarificatore nella lingua d’arrivo. Quindi abbiamo TwilightHunger Games eShadowhunters, titoli invariati tanto nelle versioni letterarie quanto nelle loro trasposizioni cinematografiche; l’ultimo citato non è l’originale, ma per il pubblico italiano si è scelto comunque di mantenere un titolo inglese, estrapolandolo dalla trama. Insomma, sarà per il fascino esotico della lingua straniera, sarà perché, ancora una volta, si tende al richiamo seriale intertestuale, ma Twilight e gli altri volumi della saga, tutti dai titoli rigorosamente “congelati”, non hanno avuto alcun problema a diventare veri e propri cult fra le giovanissime. Che poi, una dodicenne con una cultura media, “Crepuscolo”, forse, non sa neanche cosa significhi.

Se questa prima fase di “riscaldamento” vi è piaciuta, non perdete il prossimo appuntamento; strada traducendo, ne vedremo delle belle!

Mariachiara Eredia

 

Cfr. originale: http://www.temperamente.it/lostintranslations/lost-in-translations-la-questione-della-traduzione-a-partire-dal-principio-ovvero-il-titolo/?error=access_denied&error_code=200&error_description=Permissions+error&error_reason=user_denied#_=_

 

[Repost] Word histories: conscious uncoupling (by Simon Thomas)

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Word histories: conscious uncoupling

 

 Simon Thomas blogs at Stuck-in-a-Book.co.uk

Published4 April 2014

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Gwyneth Paltrow and Chris Martin (better known as an Oscar-winning actress and the Grammy-winning lead singer of Coldplay respectively) recently announced that they would be separating. While the news of any separation is sad, we can’t deny that the report also carried some linguistic interest. In the announcement, on Paltrow’s lifestyle site Goop, the pair described the end of their marriage as a ‘conscious uncoupling’. So… what does that mean?

The phrase was picked up by journalists, commentators, and tweeters around the world. Some called it pretentious, some thought it wise, others simply didn’t know what was going on. Let’s have a look into the Oxford English Dictionary (OED) and see what we can learn about these words.

Conscious is perhaps the less controversial word of the pair. A look through the Oxford Thesaurus of English brings up adjectives like awaredeliberate,intentional, and considered. But did you know that the earliest recorded use ofconscious related only to misdeeds? The OED currently dates the word to 1573, with the definition ‘having awareness of one’s own wrongdoing, affected by a feeling of guilt’. This sense is now confined to literary contexts, but it was only a few decades before the general sense ‘having knowledge or awareness; able to perceive or experience something’ became common. The idea of it being used as an adjective referring to a deliberate action came later, in 1726, according to the OED’s current research.

The verb uncouple has an intriguing history. The current earliest evidence in the OED dates to the early fourteenth century, where it means ‘to release (dogs) from being fastened together in couples; to set free for the chase’. Interestingly, this is found earlier than its opposite (‘to tie or fasten (dogs) together in pairs’), currently dated to c.1400 in Sir Gawain and the Green Knight. In c.1386, in the hands of Chaucer and ‘The Monk’s Tale’, uncouple is given a figurative use: ‘He maked hym so konnyng and so sowple / That longe tyme it was er tirannye / Or any vice dorste on hym vncowple.’ The wider meaning ‘to unfasten, disconnect, detach’ arrives in the early sixteenth century, and that is where things rested for some centuries.

The twentieth century saw another couple of uncouples – one of which is applicable to the Paltrow-Martins, and one of which refers to a very different field. In 1948, a biochemical use is first recorded – which the OED defines ‘to separate the processes of (phosphorylation) from those of oxidation’. But six years earlier, an American Thesaurus of Slang includes the word as a synonym for ‘to divorce’, and this forms the earliest example found in theOED sense defined as ‘to separate at the end of a relationship’. Other instances of uncouple meaning ‘to split up’ can be found in a 1977Washington Post article and one from the Boston Globe in 1989.

So, despite all the attention given to the term ‘conscious uncoupling’, people have been uncoupling in exactly the same way as Gwyneth and Chris – and using the same word – since at least 1942. So perhaps not quite as controversial as some commentators suggested.

 

Cf. original: http://blog.oxforddictionaries.com/2014/04/word-histories-conscious-uncoupling/

Manners maketh the translator – client relations or how not to do it

Good point by Claire Cox (Translations).
Sometimes, we just need those common courtesies which make life less stressful, easier and pleasant. 🙂

ClaireCoxTranslations

Incensed by the attitude of a fellow freelance translator today, I’ve finally been driven to write my first blog post. As a former in-house translator for a major UK company and freelancer for the past 24 years, although I still outsource a small amount of work for my former employers, I feel pretty well qualified to see both sides of the fence. The lesson being that it costs nothing to be civil and will probably lead to more work in the long run.

It might seem obvious that common courtesy should be so important, but my experience is that many freelance translators overlook this simple fact. Here are some pointers to what is and is not acceptable:

1. Don’t send terse (rude!) staccato replies to work enquiries. A little bit of chit-chat, even if it’s just “Hope you are well” or “Isn’t it a lovely day?” goes a long…

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